Chirone, il guaritore ferito
- Filosofia di Bene
- 24 ott 2020
- Tempo di lettura: 3 min

“Il terapeuta può guarire gli altri nella misura in cui è ferito egli stesso” (C. G. Jung)
Il mito narra che Crono, per conquistare la bella Filira, si trasformò in un cavallo. Dalla loro unione, nacque Chirone che, per discendenza paterna, era dunque immortale. Questa impossibilità di morire, lo costrinse a convivere con una lancinante sofferenza al ginocchio, cui venne ferito da una freccia scoccata da quello stesso Eracle che, anni prima, era stato affidato al metà uomo e metà cavallo perché questi lo curasse dalle ustioni provocate dalla madre Teti. Chirone, difatti, pur essendo un centauro – creature grezze e piuttosto violente – amava la medicina, lo studio delle proprietà curative delle piante, ed era molto saggio. Incarnava quello che un tempo era il filosofo, prima che il Sapere venisse parcellizzato e la scienza venisse disgiunta dalla sua origine: la Filosofia.
Chirone divenne, quindi, l’emblema del medico-filosofo: capace di curare perché consapevole di cosa fosse la sofferenza. La ferita, che cercò per tutta la sua eterna vita di guarire, lo accompagnava sempre e questa è stata la sua forza. Egli ci fa riflettere sul ruolo oggi tanto discusso del medico che, soprattutto in questo periodo di gettatezza dettato dalla pandemia, è oggetto di panegirici o di aspre critiche, in balìa del giudizio di chi lo erige a super-eroe o ad amorale giudice che decide per la vita o per la morte dei pazienti affetti da Covid. Quante volte, difatti, ci sentiamo dire “Ormai, in terapia intensiva, lasciano morire coloro che non hanno speranza e salvano i più giovani”! Una generalizzazione perigliosa, frutto di pregiudizi causati da una mancanza di contezza della situazione concreta. Quanto deve essere difficile decidere a chi dirigere le risorse disponibili; perché di questo si tratta: di mancanza di risorse sufficienti per tutti, non tanto di mancanza di Cura, poiché questa è potenzialmente inesauribile.
Le implicazioni etiche sono enormi e così le ricadute sui curanti stessi, sia psicologiche che esistenziali. Le ferite si aprono e sono tenuti a conviverci. Ma essi sono pur sempre Persone. Hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro, affinché possano continuare a prendersi cura degli altri. Anzi, dovrebbero essere “attrezzati” a poterlo fare da sé addirittura, attraverso l’inserimento – nei curricula accademici – di insegnamenti umanistici: filosofia, psicologia, antropologia, etc. Il Sapere dovrebbe essere ricomposto nella sua complessità originaria, in cui era discorso unitario su ciò che caratterizza la vita: psyché e soma devono essere riconciliati all’interno della loro visione del mondo e della vita, perché – come ci ricorda Socrate –
“Tutti i mali ed i beni per il corpo e per l’uomo nella sua interezza, nascono dall’anima, come per gli occhi derivano dalla testa e ad essa innanzi e soprattutto bisogna rivolgere la cura (θεραπεύειν), se si desidera ottenere la salute sia per la testa che per il resto del corpo. E l’anima (ψυχή), o caro, si cura con certi incantesimi e questi incantesimi sono i bei discorsi, da cui nell’anima si genera la temperanza (σωφροσύνη)”.
Il medico deve essere coltivato nella sua umanità, educato ad essere temperante, esattamente come ci ricorda Chirone, saggio e sensibile, attento alla sofferenza perché a sua volta ferito, coscienzioso nei confronti del corpo così come dell’anima di tutti gli allievi che gli vennero affidati. Da Eracle ad Asclepio, da Enea a Teseo, il centauro vulnerabile tirò fuori uomini eccezionali, concrezioni di quel καλὸς καὶ ἀγαθός che era il modello dell’eroe greco: Bellezza e Bontà. Bellezza non tanto fisica quanto eudaimonica, finalizzata alla realizzazione del loro δαίμων interiore; e Bontà nel senso di magnanimità, di profondo radicamento nella propria umanità. Insegnava loro a combattere su più fronti, nella guerra così come nell’arte di essere umani. E così dovrebbe essere per i medici e tutti coloro che operano nel settore della cura.
Comments