Come cervelli in una vasca
- Filosofia di Bene
- 30 mar 2021
- Tempo di lettura: 3 min

Di recente ho come l’impressione di vivere in una mente disincarnata.
Cosa intendo? Da un anno siamo ormai costretti al distanziamento, all’isolamento, alla paura del contatto fisico con l’altro. Il coronavirus ci ha abituato a questo. Di conseguenza, chiusi al mondo, stiamo esasperando l’unica cosa che ci rimane: la dimensione comunicativa «filtrata». Schermi, tanti schermi! Smartphone, tablet, pc… ormai viviamo mediante loro e, sebbene sempre connessi, non siamo mai stati così lontani dall’altro e dal corpo dell’altro.
È come se avessimo realizzato il paradosso del filosofo e matematico Hilary Putnam, così ben descritto in questo video:
In Ragione, verità, storia (1981), Putnam usa questo esperimento per dimostrare il cosiddetto realismo interno: uno scienziato pazzo preleva un cervello ad un uomo e lo pone in una vasca, contenente una soluzione nutritiva; collega i neuroni ad un computer esterno e, mediante gli input che questo gli rimanda, il cervello ha comunque l’impressione di vivere normalmente, in un mondo reale, sebbene sia totalmente slegato dalla contingenza stessa e privato del suo stesso corpo. La persona cui appartiene quel cervello non riuscirebbe più a discernere il vero dal falso, il reale dall’irreale… Scrive Putnam:
“Sembra che ci siano persone, oggetti, il cielo ecc., ma in realtà l’esperienza della persona (la vostra esperienza) è in tutto e per tutto il risultato degli impulsi elettronici che viaggiano dal computer alle terminazioni nervose. Il computer è così abile che se la persona cerca di alzare il braccio la risposta del computer farà sì che «veda» e «senta» il braccio che si alza. Inoltre, variando il programma lo scienziato malvagio può far sì che la vittima «esperisca» (ovvero allucini) qualsiasi situazione o ambiente lo scienziato voglia”.
E, arrivando a ipotizzare che potremmo essere tutti immersi in una sorta di macro-esperimento di questo tipo, aggiunge:
“in un certo senso io e voi siamo davvero in comunicazione. Io non mi inganno sulla vostra esistenza reale, ma solo sull’esistenza del vostro corpo e del mondo esterno, cervelli esclusi”.
L’unica certezza, l’indubitabile, è il cervello.
Ma ci basta? È sufficiente? Io penso di no.
Mi sembra, difatti, di vivere in una concrezione distopica: un cervello in una vasca convinto di vivere realmente ciò che il processore gli fa percepire. Cerco di sublimare questo contatto con l’altro, insapore e incompleto perché sempre filtrato; provo a farne contenuto della mia coscienza; ma qualcosa non torna ... Ci si può accontentare – meglio questo che nulla e il totale isolamento cui saremmo obbligati se la tecnologia non ci consentisse comunque di comunicare – mi dico. Eppure cosa manca? La coerenza con ciò in cui credo: che siamo un tutt’uno, mente incarnata. Abbiamo bisogno anche dei nostri corpi per stare con gli altri. La privazione di un abbraccio, di un contatto, di un gesto di affetto o della piena espressività dei nostri volti – ora mascherati – ci impone un grosso sacrificio di una parte di noi stessi. L’intersoggettività non si realizza senza l’intercorporeità. Per salvare il mero Körper, il nudo βίος, stiamo dimenticando il Leib… Siamo, dunque, solo software o anche hardware?
Io non penso che possiamo prescindere dal nostro corpo. Come ci dimostrano pensatori come Shaun Gallagher e Dan Zahavi (La mente fenomenologica), sono convinta che la nostra realtà e identità siano plasmate sì dal cervello, ma non come vuole dimostrare l’esperimento di Putnam, bensì da una mente incarnata, in cui Körper e Leib sono poli della stessa sostanza. Per cui, in assenza della pienezza esistentiva garantita e permessa anche dal corpo, voglio ribadirmi che esso non deve essere dimenticato e che è un grosso rischio abituarsi a questo esperimento folle cui, inevitabilmente, ora siamo costretti.
“Indipendentemente dal fatto che il cervello in una vasca sia una possibilità reale oppure no, quello che è certo è che la nostra esperienza cognitiva è plasmata da un cervello incarnato. Infatti è sempre più ampiamente accettato che i cervelli che abbiamo sono plasmati dai corpi che possediamo e dalle azioni che compiamo nel mondo reale. La cognizione, non solo è incarnata, ma è anche situata, ed è tale perché incarnata” (S. Gallagher, D. Zahavi)
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