Incontrare l'Altro
- Filosofia di Bene
- 28 giu 2020
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 4 lug 2020
"L’Altro uomo non mi è indifferente, l’Altro uomo mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola «riguardare». In francese si dice che «mi riguarda» qualcosa di cui mi occupo, ma «regarder» significa anche «guardare in faccia» qualcosa, per prenderla in considerazione".
(Totalità e infinito, Emmanuel Lèvinas)

Quando una persona viene da me, per la professione che svolgo, io devo cercare di “incontrarla”.
Incontrarla autenticamente, facendola sentire accolta, accettata, non giudicata.
È una missione, una Beruf: l’Altro mi parla e io accedo al suo mondo… Almeno ci provo.
Sicuramente l’incontro autentico con l’Altro è conditio sine qua non del prendersi cura, con efficacia, di colui o colei che si rivolge al counselor filosofico. Questi è chiamato, ogni volta, a ingaggiare una sfida con se stesso per entrare in relazione, e comunicare con la persona che bussa alla sua porta.
Non si può insegnare a nessuno, tantomeno ad un professionista della relazione di aiuto, come entrare in empatia con l’Altro. È una caratteristica, quella dell’empatia, che o si possiede o che non si può improvvisare nè apprendere. Anche un buon medico dovrebbe essere empatico, ma non possiamo insegnargli l’arte dell’empatia, proprio perché l’Einfühlung fa parte del saper-essere e non del saper-fare dello specialista. Si nasce, insomma, con la predisposizione all’ascolto dell’Altro.
Ma anche chi ha questa naturale inclinazione, non è detto che riesca ad “accogliere” l’altro, a farlo sentire “a casa” …
Ciascuno di noi è un “inesauribile”: per quanto ci sforziamo di comunicare in maniera efficace, qualcosa sfuggirà sempre nel ricevente del messaggio. Questo – come dico sempre – è frustrante, ma allo stesso tempo è la fonte del mistero di cui ognuno è portatore. Anche quando amiamo e abbiamo l’impressione di essere compresi con un solo sguardo dall’amato, qualcosa rimane necessariamente fuori… Poiché l’amato è una persona diversa da me, unica, singola e irripetibile, proprio come sono io.
Tuttavia, come l’Amore dimostra, ci sono dei momenti – rari e, come tali, preziosi! – in cui ci riconosciamo nello sguardo dell’Altro. In cui la distanza è colmata e percepiamo il volto dell’Altro come specchio in cui ci riconosciamo. Sono perle di Esistenza, di cui abbiamo sete e che sono fondative per la nostra vita.
Il volto dell’Altro ci scruta e ci chiama… e viceversa: il nostro volto chiama l’Altro e ci fa sentire “visti”.
Non abbiamo paura di essere “nudi” davanti a quello sguardo. Non ci fa paura. Possiamo affidarci.
Così deve essere lo sguardo del counselor filosofico: non un diktat, bensì qualcosa che deve accadere spontaneamente. Se la persona che gli si rivolge non si sente accolta da quello sguardo, ecco che il rapporto di “cura” è inficiato sin dall’inizio.
Non si può insegnare; ed è deontologicamente corretto riconoscere – da parte del professionista – l’incapacità eventuale di “vedere” l’Altro.
Ogni rapporto con l’Altro è a sé. Anche se la problematica esistenziale affrontata è la stessa, non è detto che il counselor filosofico riesca ad accogliere la persona che gli si rivolge. Deve, dunque, essere onesto e riconoscere, in primis a se stesso, tale limite.
Ma quando avviene, quando riesce ad entrare in empatia con l’Altro, ecco che è una magia.
E, assieme, si può andare molto lontano.
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