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Angoscia esistenziale e Tempo vissuto. L’arte come “ponte”

  • Immagine del redattore: Filosofia di Bene
    Filosofia di Bene
  • 5 lug 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 9 ago 2021


“Io non vivo nell’oscurità: vivo nella chiarezza più assoluta. A volte intuisco la fine … ed è allora che non vedo niente. Perché non c’è niente! È tutto inutile. Vivere è una perdita di tempo”. (Caotica Ana, di Julio Medem, 2007).

Ci sono persone che intuiscono. Che intuiscono il loro destino, che è il destino di ciascuno di noi. A differenza di altri - magari sorretti dalla fede o da un sereno agnosticismo -, questi individui faticano a tollerare la Consapevolezza che, una volta fattasi breccia nella loro visione del mondo, non può più essere ignorata.

Il velo si apre e la vita non ha più senso …

Proprio come le parole della protagonista di questo film esprimono.

Il Tempo diviene un insostenibile interludio della "destinazione ultima": non più spazio del vissuto, ma gabbia, prigione.


Molti, tuttavia, non riescono a trovare il modo per esprimere lo stato di malessere che li attraversa.

Ed ecco che l'opera d’arte, offre una appiglio comunicativo, una chiave privilegiata per ovviare all'ineffabile ed entrare in contatto con noi stessi e con l'Altro. Dove le parole non arrivano, possiamo affidarci all’espressione artistica per gettare un ponte, rispetto a noi e rispetto all’altro.

Per quanto ci si debba adeguare al registro comunicativo altrui, infatti, ci sono aspetti della comunicazione verbale che difficilmente possono essere “corretti” ad hoc. Per cui la scelta e l’utilizzo di film, musica, narrativa, opere pittoriche, fotografia o altro può metterci in relazione con l’Altro (che sia la nostra interiorità o una persona), sopperendo a tale impossibilità. Ci collega.

Nel caso, poi, dell’angoscia esistenziale, che – quando sorge – prende le viscere di chi la prova, spesso può risultare arduo rendere, attraverso le parole, le sensazioni epidermiche, le emozioni che essa desta; proprio perché – come detto altrove – essa è quello stato di irrequietezza, di vacuità pervadente, che senza motivo piomba come una scure sulla testa di colui che la sperimenta, bloccandolo in una sorta di limbo da cui fatica ad uscire da solo. Non ci sono motivi esogeni scatenanti, non vi sono fatti che la legittimino, eppure c’è. E l’individuo ne è avvinto e vinto, al tempo stesso.

Per un counselor filosofico, facilitare il singolo alla verbalizzazione di quello che si presenta come un magma indefinito, fonte spesso di vergogna, proprio a causa della mancanza apparente di una ragione contingente che legittimi la sussistenza di un tale malessere esistenziale, è un'impresa. Ancora più frequentemente, le persone sono completamente inconsapevoli dell’esistenza di questo tipo di angoscia che, se non riconosciuta, può sconfinare nel campo del patologico in cui un counselor filosofico non può entrare, se non lavorando in sinergia con uno specialista dell’ambito psicologico.

Nell’esistenza di un individuo che prova angoscia esistenziale, questa può essere spesso accompagnata da una sorta di percezione, in vita, del Nulla cui la morte conduce, come emerge dalle parole di Ana. Il Tempo di queste persone non è un tempo vissuto, ma subìto, deprezzato e privo di significatività. A prescindere dal possesso di una fede o meno, tale condizione rappresenta un assaggio dell’esperienza-limite per eccellenza, di quello che Vladimir Jankélévitch definisce l’organo-ostacolo: la Morte.

“La morte è il fallimento insensato, il fastidio cieco, l’impedimento assurdo e non compensato, per un essere, a realizzarsi pienamente. In che modo questa negazione che nessuno può vivere, che nessuno ha mai visto, può essere costitutiva dell’esistenza umana?” (La morte, 1966).

È ostacolo quando genera disperazione, Angst, a causa della percezione del destino ineluttabile cui la singolarità di ciascuno di noi – definita dal pensatore russo semelfattività – è votata. L’ostacolo, il limite estremo, non fa che acuire il senso di insignificanza di qualsiasi iniziativa umana, il dipanarsi dell’esistenza si sgretola nell’insensatezza:

“il divenire che ci serve non solo ad abbreviare tutti i termini della realizzazione vitale, ma anche a far indietreggiare il nulla, ci mette, in fin dei conti, sulla strada di questo nulla”
“È quando il tempo si riduce alla temporalità nuda, è dunque quando l’uomo è in una situazione tragica, che l’ostacolo prende davvero il sopravvento sull’organo: allora il tempo inerte, pietrificato, devitalizzato, rappresenta solo lo spessore ritardante del nostro destino. È così che il tempo della disperazione, il tempo tragico è tornato ad essere puro ostacolo”.

L’essere ostacolo del pensiero della finitudine non fa che rammentarci come la vita non sia nient’altro che un dimenarsi frenetico, un diversivo perenne per distoglierci dal pensiero dei pensieri. Il tempo risulta così privo di valore, negativo, essendo mero trascorrere verso la mèta invalidante, che tutto vanifica.

Ma il pensiero della fine e del fine di tutte le esistenze è, fortunatamente, anche organo, ossia strumento, quando comporta una visione del tempo inteso come opportunità per l’uomo di diventare ciò che è autenticamente, mettendo assieme la propria unica e insostituibile biografia personale che, senza scelte che escludano tutte le altre possibilità, non sarebbe appunto irripetibile quale in realtà è; in quest’ottica, il tempo ha dunque un ruolo positivo nell’aiutare l'individuo, pressato da esso e dalle sue scadenze, a divenire, radunando l’uno dopo l’altro i possibili scelti. Questo modo di vivere la temporalità infonde speranza all’esistenza umana.

Non tutti riescono a cogliere l’opportunità offerta dal pensiero della finitudine, o non riescono a formulare i pensieri in cui sono invischiati perché le emozioni si frappongono nel processo di chiarificazione di questo tassello fondamentale della visione del mondo. Non tutti la vivono così; i più sono paghi del loro tempo e la morte li tange solo nella misura in cui capita ad altri: come se la mortalità non definisse anche loro. Si muore, tutti lo sappiamo, ma è una morte in “terza persona”, dice Jankélévitch.


Proprio come capita al protagonista del bellissimo racconto di Tolstoj, La morte di Ivan II′ič (1886), che rappresenta – ai fini del nostro discorso- un altro esempio di come si possa usare un mezzo narrativo, in questo caso, per accompagnare e stimolare una persona alle prese col tentativo di dare voce alla propria angoscia.

Ivan Il′ič sta per morire e realizza ciò che, per tutta la vita, non ebbe il coraggio di guardare onestamente: la Fine cui la singolarità di ciascun uomo è chiamata. Il suo intero mondo scomparirà con lui non appena avrà chiuso gli occhi. E tale pensiero è cruento, gli rende inaccettabile la consapevolezza di vivere i suoi ultimi giorni. Sino a quel momento, infatti, egli aveva concepito la morte come un qualcosa che capita, certo, ma agli altri. Un sillogismo mette in discussione questo Man del morire in cui Ivan si era rifugiato: Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, quindi anche Caio è mortale … In questo caso, Caio è lui Ivan! –, anche se non lo vuole ancora realizzare.


“Un conto era Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era Caio, che non era un uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri; lui era il piccolo Vanja, con mamma, papà, Mitja e Volodja, con i giocattoli, il cocchiere, la governante, con Katja, con tutte le gioie, le amarezze dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza. [...] Certamente Caio era mortale ed era giusto che morisse, ma non lui, il piccolo Vanja, divenuto Ivan Il’ič, con tutti i suoi sentimenti e pensieri; questo era tutto un altro caso. E non era possibile che toccasse a lui morire. Era troppo orribile”.

Insomma sottoponendo alla persona che ci si rivolge un'opera artistica, non si pretende di risolvere il problema per cui ci interpella; non si tratta di somministrare una soluzione preconfezionata in cui possa riconoscersi; bensì si cerca di catalizzare la chiarificazione mediante l’offerta di stimoli con cui possa confrontarsi, per aiutarla a dare forma al proprio malessere e – grazie a tale rinnovata (o ritrovata) consapevolezza – trovare da sé le vie per dare nuovamente senso al suo tempo, affinché questo diventi tempo vissuto.

Il ponte, infine, può e deve essere sempre eretto … Che sia fatto di parole, di musica o di immagini poco importa: basta cercare e reperire assieme i "giusti" mattoni.

1 Comment


rizzellilorenzo
Jul 05, 2020

Bellissimo articolo! Mentre stavo leggendo mi è venuta in mente la contrapposizione tra esistenza inautentica heideggeriana caratterizzata dalla deiezione (che si potrebbe collegare al concetto di "tempo subito" passivamente) ed esistenza autentica (la consapevolezza della propria mortalità che può essere associata al tempo vissuto attivamente). Come hai ben sottolineato alla fine dell'articolo, l'arte rappresenta uno strumento essenziale attraverso cui si definisce la consapevolezza della condizione della mortalità umana. A tal proposito un collegamento con il concetto di "Dichtung" heideggeriano si potrebbe stabilire : "l'arte in quanto opera che rappresenta un'apertura o un progetto che deve essere inventato".

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“Nessuno di noi abita il mondo, ma tutti abitiamo esclusivamente la nostra visione del mondo. E non è reperibile un senso della nostra esistenza se prima non perveniamo a una chiarificazione della nostra visione del mondo, responsabile del nostro modo di pensare e di agire, di gioire e di soffrire. Chi si rivolge al counseling filosofico non è malato, è solo alla ricerca di un senso”.

– Umberto Galimberti –

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