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Il fiducioso “elitario”

  • Immagine del redattore: Filosofia di Bene
    Filosofia di Bene
  • 11 lug 2020
  • Tempo di lettura: 4 min

“Sono poche le persone che io amo veramente, e ancora meno quelle che stimo. Più conosco il mondo, più ne sono delusa, ed ogni giorno di più viene confermata la mia opinione sull'incoerenza del carattere umano, e sul poco affidamento che si può fare sulle apparenze, siano esse di merito o di intelligenza” (Jane Austen)

“Non sono turbato perché mi hai tradito, ma perché non potrò più fidarmi di te!” (Jim Morrison)


Fiducia”, dal latino fidĕre, aver fede.

È sempre opportuno avere fiducia e, di conseguenza, rivelare tutto all’altro?

Essere in balia del vero o, per lo meno, della propria schiettezza, giova sempre alla nostra esistenza?

Si pensa che nelle relazioni più profonde, in amicizia o in amore, si debba necessariamente essere onesti e schietti con l’altro, consegnandogli anche i pensieri più reconditi.

Ma questo può generare incrinature proprio in quel rapporto che tanto abbiamo voluto tenere in alto con la promessa della verità ad ogni costo.

Molto ha a che fare con la fiducia nell’altro e con una certa concezione antropologica dell’essere umano. Se, difatti, vi riponiamo la nostra fede, allora pensiamo di poterlo innalzare anche a legittimo depositario del nostro animo. Ma bisogna stare accorti e ricordarsi, in primis, l’amor proprio. Quel sentimento di stima che ci dobbiamo e che dobbiamo imparare a coltivare. Perché capita, ai “fiduciosi”, di “dare le perle ai porci”, ossia di affidare e affidarsi in maniera troppo ingenua all’altro che, invece e nonostante le apparenze, non comprende sino in fondo.


Il “fiducioso” dovrebbe sempre tenere a mente la formula citata in ogni film poliziesco degno di questo nome: “Lei ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualunque cosa dirà, potrà essere usata contro di lei in tribunale. Può chiedere l’assistenza di un avvocato, etc.”. E chi è il nostro “avvocato”? Siamo noi stessi. Solo noi possiamo intuire a chi dare fiducia e da chi guardarci, perché quello che i più chiamano “sesto senso” in realtà affonda le proprie radici nel vero che è dentro di noi, quel vero che non riusciamo ad afferrare completamente o in maniera consapevole, ma che ci parla e ci mette in guardia. Quante volte ci capita di pentirci di non averlo ascoltato? Invece la fiducia in se stessi, nel proprio advocatum, risiede proprio in questo: nella capacità di darsi ascolto e di ascoltarsi. Ed è opportuno, in determinate circostanze, esercitare il diritto (e dovere) di restare in silenzio.


Chi, come me, nutre profonda fiducia nelle capacità dell’essere umano – e non potrebbe essere altrimenti per la professione che svolgo – deve stare in ascolto di sé, anche quando è al cospetto dell’altro. La fiducia deve essere bidirezionale: fondamentale per chi si rivolge a me, ma anche pilastro del mio essere in relazione con l’altro. Se non credo alle parole del mio interlocutore, il rapporto non può andare avanti. Esattamente come non possono andare avanti quelle relazioni in cui la fiducia è venuta meno. Oscar Wilde lo esprime molto bene:

“I matrimoni senza amore sono spaventosi. Tuttavia, c'è qualcosa di peggio di un matrimonio senza amore: un matrimonio in cui esiste l'amore, ma da una sola parte, ed esiste la fiducia, ma da una parte sola. Un matrimonio in cui uno dei due cuori è destinato a essere infranto.”

Ma vale anche nelle amicizie. Molte non si rivelano tali perché colui che pensavamo ci fosse amico, tradisce la nostra fiducia, magari svelando ad altri ciò che gli avevamo affidato come custode, usandolo – come si diceva sopra – proprio contro di noi. I custodi devono essere rintracciati con cura, scelti, a costo di fare epochè momentanea sull’inclinazione naturale a confidare nell’altro. Anche Aristotele invita a temporeggiare prima di darsi in dedizione:

“Non c'è amicizia salda senza fiducia: e non c'è fiducia senza far passare un certo tempo”

Non voglio esaltare la diffidenza, bensì porre l’attenzione sul fatto che affidarsi al nostro prossimo sia un dono. Né voglio fare l’elogio della dissimulazione o della menzogna, piuttosto sottolineare come sia importante mettere in guardia coloro che si danno in dedizione in maniera cieca e incondizionata, i “fiduciosi” appunto: è un’inclinazione meravigliosa e rara, ma – proprio perché tale – deve essere protetta e tutelata non dal ricevente bensì dall’emittente, ovvero da noi stessi. Molte persone mi portano la loro sofferenza derivante da un vissuto legato al tradimento della fiducia. La loro visione del mondo vacilla, poiché lo slancio accogliente e aperto verso gli altri è uno dei cardini fondamentali del modo di intendere e impostare l’esistenza da parte di questi individui. Bisogna ridefinire tale capacità, accompagnando alla ricostruzione di fondamenta rinnovate e più solide, meno inclini agli agenti esogeni che, inevitabilmente – e anche ai più accorti –, possono causare terremoti disastrosi.

Perché, pure se scossa da fattori esterni, se tradita, la fiducia non è qualcosa che si rigenera: deve essere ben salda in noi. È un bene indisponibile della Persona, come Anna Freud ci rammenta:

“Cercavo sempre al di fuori di me la forza e la fiducia, ma queste vengono da dentro. Sono sempre state dentro per tutto il tempo.”

Essere "elitari" in questo senso: non dare le perle ai porci.

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“Nessuno di noi abita il mondo, ma tutti abitiamo esclusivamente la nostra visione del mondo. E non è reperibile un senso della nostra esistenza se prima non perveniamo a una chiarificazione della nostra visione del mondo, responsabile del nostro modo di pensare e di agire, di gioire e di soffrire. Chi si rivolge al counseling filosofico non è malato, è solo alla ricerca di un senso”.

– Umberto Galimberti –

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