Il mito dell’amore materno
- Filosofia di Bene
- 23 ago 2020
- Tempo di lettura: 4 min

“Tenete lontano il più possibile i figli, non lasciarli avvicinare alla madre. L’ho vista mentre li guardava con occhio feroce, come se avesse in mente qualcosa”. (Euripide, Medea, vv. 89-92)
Ne I miti del nostro tempo (2012), Umberto Galimberti mette in dubbio diversi pilastri su cui si fonda l’essere-nel-mondo di ciascuno di noi, su cui si regge e di cui si nutre – per educazione e formazione, spesso – la nostra visione del mondo: i cosiddetti «miti».
L’identità sessuale, la giovinezza, la felicità, l’intelligenza, il potere, la tecnica, la razza, la globalizzazione, etc. sono idee divenute padrone del nostro modo di vivere e di concepire l’esistenza, modelli cui conformarsi e cui tendere, in quanto ormai percepite come la giusta forma che devono assumere i diversi aspetti della nostra vita. Queste idee vengono sottoposte al setaccio del dubbio dal pensatore lombardo, ossia problematizzate attraverso un processo di «demitizzazione»:
“Certe idee, per ragioni biografiche, culturali, sentimentali o di propaganda, sono così radicate nella nostra mente da agire in noi come dettati ipnotici che non sopportano alcuna critica, alcuna obiezione. E non perché siamo rigidi o dogmatici, ma perché non le abbiamo mai messe in discussione, non le abbiamo mai guardate da vicino. Chiamiamo queste idee miti, mai attraversati dal vento della de-mitizzazione”.
Tali idee ci rendono tranquilli – spiega Galimberti –, permettendoci di sentirci parte del tutto (contesto sociale, familiare, lavorativo, ambientale) cui vogliamo appartenere; stabiliscono dei confini rassicuranti, impediscono alla nostra visione del mondo di andare in crisi, di percepire il conflitto che spesso la attraversa quando subentra una mancanza di riconoscimento interiore di questi miti che, invece, siamo tenuti a venerare per non essere fuori dal gregge.
Eppure capita molto di frequente che il singolo provi costrizione all’interno di tali confini predefiniti, la maggior parte delle volte perché – sebbene in maniera irriflessa e inconsapevole – ciò che viene impartito, indotto e acquisito mediante l’educazione e l’influenza dei costrutti della società non coincide con il sentimento personale, ovvero con la nostra potenziale Autenticità. Le persone vivono, allora, in una dimensione di Inautenticità, senza neppure accorgersene; si lasciano scorrere, assistono come spettatori al fluire della loro esistenza e nascondono la sofferenza che ne deriva. Perché non è concesso protestare contro quei modelli tanto alti e così assodati incarnati dai miti.
E questo accade anche per quanto concerne l’amore materno, il primo mito affrontato a setacciato da Galimberti:
“Tutti sappiamo che l’amore materno non è mai solo amore. Ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio”.
Quando stai per diventare madre, nessuno ti mette in guardia su ciò che stai per affrontare. Viene sottolineata solo la gioia – innegabile – che ne deriva; tuttavia, soprattutto alla prima esperienza di maternità, la donna si trova subito disorientata e incapace di affrontare serenamente il nuovo ruolo e aspetto della propria esistenza. E, in questa fase esistenziale cruciale, non viene accompagnata da nessuno: è sola, al cospetto di un essere, fatto di lei, nutrito dal suo corpo, ma comunque esterno ed estraneo. Come il filosofo sottolinea, la solitudine della madre è oggi acuita dalla mancanza del supporto della famiglia: sino al secolo scorso, infatti, oltre al partorire in casa, la puerpera poteva contare sulla presenza e sull’accompagnamento di altre donne: la madre, la nonna, la levatrice del paese, eventualmente le figlie più grandi erano lì, al suo fianco, a prendersi cura di lei e della prole appena venuta al mondo. Si poteva delegare, confidarsi, ricevere consigli su come allattare e allevare il nuovo essere venuto alla luce. I tempi odierni non consentono più questo: la nascita e la morte sono relegate all’ospedale; ci sono corsi pre-parto o di massaggio per i neonati certo, ma nessuno sta quotidianamente al fianco della donna; neanche il compagno può comprenderla in questo passaggio esistenziale. E la neo-mamma si ritrova ad affrontare sentimenti che, spesso, poco hanno a che fare con il rapporto idilliaco che si dovrebbe avere col proprio figlio somministrato dalla propaganda del mito circa la maternità. Questo non parla mai dei risvolti dolorosi dell’essere madre, del fatto che non sia solo amore quello che suscita l’«estraneo» da lei generato, e non parliamo di mera depressione post-parto. Il sentimento materno è difatti ambivalente:
“L’amore, che come ci ricorda Norman Brown è «toglimento di more (a-mors)», confina con la morte, e sottilissimo è il margine che vieta di oltrepassare il limite che fa di uno sguardo sereno uno sguardo tragico. Nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività antitetiche perché una viva a spese dell’altra: una soggettività che dice «io» e una soggettività che fa sentire la donna «depositaria della specie». […] Questa ambivalenza del sentimento materno generato dalla doppia soggettività che è in ciascuno di noi, e che il mondo delle madri conosce meglio del mondo dei padri, va riconosciuta e accettata come cosa naturale e non con il senso di colpa che può nascere dall’interpretarla come incompiutezza o inautenticità del sentimento”.
Riconoscere tale ambiguità di cui l'essere è intessuto, così come l'ambiguità che connota ogni aspetto della nostra esistenza, è un passo fondamentale per scongiurare tanta sofferenza, per accettare la complessità della vita che – dal suo esordio – è anche e sempre inizio di morte. La Persona è una trama di luce e di ombre; non si può vivere cercando di non vedere le zone oscure della nostra interiorità. Sarebbe un abbaglio; e provare a forzare o a mitizzare la natura umana, non rischierebbe che far emergere il mostro che è in noi … come la tragedia di Medea ci rammenta.
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