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L’amore che resta

  • Immagine del redattore: Filosofia di Bene
    Filosofia di Bene
  • 28 feb 2021
  • Tempo di lettura: 5 min

“Hanno questo di proprio le opere di genio, che, anche quando dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande, che si trovi anche in uno stato di enorme abbattimento, disinganno, nullità e scoraggiamento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle più alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa), servono sempre di consolazione, riaccendono l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta” (Leopardi, Zibaldone)

Questo passo leopardiano, citato dall’Autore del libro di cui stiamo per parlare, rende splendidamente l’intento di “L’amore che resta”, scritto dal filosofo spagnolo Fernando Savater, appena pubblicato da Laterza.


Fernando, un uomo che, a distanza di quattro anni dalla morte dell’amata moglie, si ritrova ancora al cospetto di un dolore fatto appunto di “enorme abbattimento, disinganno, nullità e scoraggiamento della vita”. A chi ancora si stupisce del suo dolore, egli reagisce con rabbia e inevitabile rivolta, infastidito da come lo sollecitino ad allontanarlo – sebbene a fin di bene – dall’unico modo che ancora ha per amarla: soffrire. Ecco, il valore della sofferenza come strumento di eternazione: solo il ricordo di colei che ha amato così tanto gli consente di tenerla accanto. “Se non fa male, non è dolore”. In questo lui crede profondamente.


Savater, canta l’“eco della sua assenza”, unico movente di vita ormai per lui, che ha perso il gusto di esistere, limitandosi a una mera sopravvivenza. Spesso ribadisce come si possa continuare a vivere nonostante tutto, nonostante la perdita della luce che lo ha illuminato per 35 anni. Si vergogna quasi di questa capacità, di quella che definisce essere una volontà biologica che annulla la volontà interiore, che lo spingerebbe a raggiungerla, a detta del pensatore. Egli vive per continuare ad essere il suo “cavaliere”:

“Dovevo cercare di parlare: non solo della sua perdita, ma di lei viva e palpitante, di ciò che abbiamo vissuto assieme, di tutto quello che mi ha dato e non solo di quello che mi ha tolto con la sua assenza”.

In apparenza un nuovo De consolatione philosophiae, il testo in realtà esprime bene la sconfitta della filosofia stessa di fronte all’ineludibilità della morte. Nessuna argomentazione filosofica può consolare Savater per la perdita di colei che gli ha permesso di essere se stesso, che lo ha reso migliore – come continuamente ribadisce elogiando una donna che ha della Beatrice dantesca in sé – unica e irripetibile.


Docente universitario e scrittore, si è sempre riconosciuto nel pensiero di Cioran (che ha conosciuto e con cui aveva avuto un intenso scambio epistolare), Schopenhauer, Leopardi, Chestov, Lovecraft, che lui chiama “i grandi pessimisti”. Eppure, nonostante questo retaggio nichilista, il suo è sempre stato un atteggiamento allegro nei confronti della vita, capace di cogliere nell’unica cosa concessaci – l’esistenza in questo mondo – tanta energia e voglia di vivere:

“Su di me i grandi pessimisti hanno sempre avuto un effetto tonificante e il messaggio che ho cercato di trasmettere […] consiste proprio nel paradossale rinforzo dell’appetito vitale e nel miglior modo per incanalarlo”.

Fernando è stato, dunque, un gaudente, amante della vita e – anche quando già aveva incontrato la sua Pelo Cohete – per diverso tempo non si negò storie clandestine, piaceri di ogni tipo, sensuali e trasgressivi. Ha sempre riso con lei, lo ribadisce in continuazione. Smette di sorridere all’avvento di quello che lui definisce il “peggio”: la diagnosi infausta di glioblastoma multiplo. Un male che nomina solo alla fine per coerenza con il suo intento:

“Ciò che racconto qui […] non è la «la parte peggiore» della mia vita, ma senza alcun dubbio la migliore, oro e pietre preziose incastonate nella memoria che sfuggono alla pattumiera dell’esistenza”.

Quindi il libro è un inno alla vita e a colei che lo ha reso vivo, speciale, sempre credendo in lui e più che musa, quasi motore immobile che tutto muove all’interno di quella che – a detta dell’Autore stesso – sarebbe stata una vita insulsa senza di lei, come lo è ora che esiste come mancanza. Lotta per ricordarla e consegnarla ai posteri, perché – senza memoria – lei non sarebbe più davvero:

“forse riuscirò a far sì che il lettore si innamori un po’ di lei, per contagio; e che magari apprezzi di più la vita, perché lei ha reso il mondo più bello. In ultima istanza, può essere che questo libro sconsolato racchiuda per qualcuno un messaggio consolatorio […]. Così formulò il concetto il giovane Cioran nel suo primo libro Al culmine della disperazione: «La sola cosa che possa salvare l’uomo è l’amore […]»”.

Più che una consolazione, io – da lettrice – ho trovato una conferma di ciò in cui credo a mia volta: il potere del ricordo e della memoria di coloro che abbiamo amato. E che amiamo ricordando. Inoltre, il valore del dolore:

“per chi ha amato davvero e ha perso la persona amata, ammortizzare il dolore è la prospettiva più crudele e dolorosa di tutte. Come scrisse uno specialista in materia, Cesare Pavese, «il dolore più atroce è sapere che il dolore passerà». E con il dolore passerà l’amore stesso, che non potrà più essere altro che la certezza dell’assenza”.

Per questo Savater si erge a “guardiano dell’assenza” e sancisce una differenza fondamentale tra quello che definisce come “amor proprio” e “Amore”: il primo è narcisismo, dice il Filosofo,

“l’unica forma di innamoramento in cui l’oggetto […] rimarrà sempre alla nostra portata. E se fa molto male all’inizio per poi diluirsi fin a lasciare solo un lieve bruciore facilmente superabile, è amor… proprio”.

Quindi è un amore opportunistico, utile per sopravvivere, ma “che non sa nulla della perdizione”, scrive inoltre Savater. Mentre l’Amore (vero) è quello intriso di sofferenza e di angoscia, “che ci rende autentici più di qualunque piacere”:

“è un amore che non accetta di spegnersi dopo la perdita irreversibile della persona amata ma che anzi, […] si scopre più puro, spavaldo e irrefutabile, oltre che infinitamente, disperatamente doloroso”.

Insomma si tratta pur sempre di due forme di amore per l'altro, ma l'amor proprio obiettivizza la persona amata, e fa soffrire momentaneamente quando si perde l'oggetto del proprio desiderio (autoreferenziale), in cui amavamo noi stessi, in fondo; si tratta di orgoglio ferito, in questo senso è una forma di narcisismo; è una perdita superabile poiché è amore per sé. Mentre l'Amore è amore per l'Altro come soggetto, in quanto Singolo (è reciproca fioritura)... e il dolore permane quando quella persona ci lascia. L'amor proprio è inautentico, un amore di sé nell'Altro; il secondo è invece autentico in quanto amore dell'Altro in sé.

Confermo inoltre che, leggendo, ci si innamori davvero un po' della “dama” eccezionale di cui si narra: Pelo Cohete. Questo, ovviamente, non era il suo vero nome. Esso è Sara Torres Marrero. Ma diventa e rimane Pelo Cohete anche per noi, partecipi di questa conoscenza unica e insostituibile. La conobbe quando era sua studentessa, presso l’università di Zorroaga in cui Savater insegnava già da qualche tempo. La chiamavano Pelo Cohete perché, allora, portava i capelli acconciati in una cresta molto alta, come quella dei punk…Tale caratteristica di ribellione permane nella donna per tutta la sua vita, nonostante la modestia e semplicità con cui si presentava al mondo. Dotata di un fascino particolare, mai civettuola eppure femmina sino al midollo, era in grado di sedurre tutti e di illuminare il mondo circostante…


Non vogliamo riassumere ciò che chi l’ha amata ha faticato ad esprimere – perché la Bellezza e la Felicità sono ineffabili, come ribadisce Savater stesso –, bensì sottolineare come ciò che resta dell’amore, del legame tra Pelo Cohete e Fernando, sia una testimonianza di quello che l’Amore dovrebbe essere:

“Che altro è l’amore se non ciò che ci rende insostituibili? Esiste desolazione più grande e insopportabile della consapevolezza che continueremo ad amare per sempre la persona che abbiamo perso e che nessuno sostituirà? E il paradosso più grande è che si tratta di una desolazione a cui il vero amante non sarebbe disposto a rinunciare per nulla al mondo”.

Solo lui poteva cantare di questo amore e della sua insostituibilità, Pelo Cohete lo sapeva:

“Se tu non lo racconti, nessuno saprà che cosa siamo stati l’uno per l’altra”.



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“Nessuno di noi abita il mondo, ma tutti abitiamo esclusivamente la nostra visione del mondo. E non è reperibile un senso della nostra esistenza se prima non perveniamo a una chiarificazione della nostra visione del mondo, responsabile del nostro modo di pensare e di agire, di gioire e di soffrire. Chi si rivolge al counseling filosofico non è malato, è solo alla ricerca di un senso”.

– Umberto Galimberti –

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