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L'arte di essere sereni

  • Immagine del redattore: Filosofia di Bene
    Filosofia di Bene
  • 29 ago 2020
  • Tempo di lettura: 12 min

Aggiornamento: 2 set 2020



“Quanto più uno vive solo, sul fiume o in aperta campagna, tanto più si rende conto che non c’è nulla di più bello e più grande del compiere gli obblighi della propria vita quotidiana, semplicemente e naturalmente. Dall’erba dei campi alle stelle del cielo, ogni cosa fa proprio questo; c’è tale pace profonda e tale immensa bellezza nella natura, proprio perché nulla cerca di trasgredire i suoi limiti” (Rabindranath Tagore)

Generalmente e in maniera legittima, lo scopo principale della vita di ciascun individuo è quello di essere felice. La felicità è ciò cui tendiamo, ma essa – il più delle volte – non dipende da noi; almeno nel suo essere un’esperienza puntiforme, improvvisa e scarsamente veicolabile. Essa può essere, tuttavia, ricercata e preparata attraverso l’esercizio della serenità, che è invece una predisposizione d’animo, un atteggiamento nei confronti dell’esistenza in cui ci possiamo esercitare.

“Che cos’è propriamente la vita? È qualcosa che può essere sentito intensamente, e poi nulla, poi apparentemente sempre uguale a se stessa e, di nuovo, completamente diversa, estremamente varia e, nello stesso tempo, pura abitudine. È fonte di piacere e felicità, ma anche di dolori e infelicità. Nessuno sa come questi elementi siano ripartiti. La vita ci consente di cercare contatti e relazioni che vanno subito perduti. Richiede fin troppa attenzione, ma procede in maniera del tutto scriteriata. La polarità è il suo tratto fondamentale. Pulsa tra elementi contrapposti, tra gioia e rabbia, paura e speranza, anelito e delusione. E, ancora, tra futuro e passato, assumendo i tempi lunghi della storia come un destino inevitabile. Qualcosa deve nascere e, allo stesso modo, è inevitabile che qualcos’altro passi. Ogni divenire procede assieme al passare, e ogni passare si accompagna al divenire”[1]

Il filosofo tedesco Wilhelm Schmid fornisce questa fotografia della vita, in un testo dedicato proprio alla serenità.


Egli afferma che la modernità tenda a negare la polarità di cui è fatta l’esistenza, obbligando l’uomo a rincorrere la felicità, fatta di giovinezza, di un continuo qualcosa da conseguire, in cui la morte e l’invecchiamento, così come tutte i poli negativi da cui siamo caratterizzati, non trovano spazio. Tale rimozione collettiva ha inevitabili ripercussioni sull’equilibrio individuale, sortendo un esito di perenne insoddisfazione, irrequietezza e un profondo senso di inadeguatezza.


Ma come è possibile essere sereni di fronte a ciò che è fonte di inquietudine come la vecchiaia e la morte? Le riflessioni di Schmid ci sono utili per comprendere quanto sia importante apprendere l’arte di essere sereni sin da subito … anche per prepararsi ad affrontare l’ineluttabile epilogo delle nostre vite.


Ispirandosi probabilmente alla tradizione greco-antica, soprattutto di età ellenistica, il Filosofo propone una sorta di «eserciziario» per allenare la serenità. Se l’abitudine è ciò che desta noia e accidia, quella – se opportunamente intesa – può invece riconsegnarci le chiavi del divenire, aiutandoci a sviluppare un propositivo amor fati in cui siamo attori dei nostri giorni, e non meramente piegati e rassegnati allo scorrere del tempo. Come ci ricorda Tagore nella citazione dell’incipit, la natura accetta il suo corso, nulla si oppone al divenire e ai cambiamenti che la dominano. E noi, che siamo parte della natura, dobbiamo da essa imparare. Dobbiamo accettare i nostri obblighi e i nostri limiti. Questo è sicuramente uno dei messaggi fondamentali su cui insiste anche Schmid, che elenca dei veri e propri passi per aiutare il lettore ad apprendere e comprendere la serenità:

“Le epoche della vita procedono allo stesso modo, anche se la loro sequenza e la loro durata possono variare da individuo a individuo, distinguendosi per i dettagli che le caratterizzano. Un passo verso la serenità dovrebbe consistere, perciò, nel dare loro il tempo necessario. Il primo quarto della vita corrisponde al primo mattino. Anche quando è faticoso alzarsi, la vita dei giovani è contrassegnata da innumerevoli possibilità. […] Tutto è possibile”.

Durante la giovinezza, ci sentiamo difatti immortali. Il pensiero della finitezza non ci tange, se non in maniera marginale e come evento che riguarda gli altri, mai noi in prima persona.

“L’invecchiamento però inizia subito e spesso è impercettibile. […] Tutti iniziano a invecchiare già nel grembo della loro madre, senza farci caso. […] Se per i bambini le cose non vanno abbastanza veloci, nei giovani adulti la velocità è tale da non lasciarli più tranquilli”.

Man mano che “cresce la coscienza della limitatezza dell’esistenza”, l’individuo vede sempre meno tempo davanti, le possibilità si riducono e, spesso, si cade nello sconforto. Ma proprio perché le opportunità diminuiscono, ecco che bisogna recuperare la gioia di vivere – dice il pensatore tedesco, introducendo al secondo passo:

“Anche il pomeriggio della nostra giornata esistenziale prevede una specifica «capacità eccellente». Affermare «posso farlo» adesso significa qualcosa di più: so come vanno le cose e potrei controllarne il corso anche se stessi dormendo. In questo modo posso riequilibrare le forze che si stanno indebolendo (compensazione). Le mie forze spirituali sembrano addirittura aumentare, perché so canalizzarle meglio (concentrazione). Non devo necessariamente fare tutto, ma so discernere e scegliere in maniera mirata (selezione). Quello che faccio riesco a farlo bene e anche molto bene (ottimizzazione)”.

Ovviamente tale dosaggio degli sforzi prevede una conoscenza di sé che solo il trascorrere del tempo può donare: proprio perché mi conosco meglio, anche grazie agli errori e alle esperienze pregresse, riesco ad ottimizzare il tempo a mia disposizione, non ne perdo più come prima, quando – giovane – pensavo di poter procrastinare ad oltranza. Non rimandiamo più, esercitando il senso di responsabilità nei nostri confronti.


Il passo successivo è l’aver cura delle abitudini:

“Arrivati all’ultimo quarto sarebbe meglio evitare di trapiantare la nostra vita altrove e lasciarla dov’è, presso le abitudini che la qualificano. […] Gli esseri umani si abituano a tutto (perfino al dolore quando non è troppo forte), ma da vecchi hanno bisogno di tempo – e di forza – per imparare a non poterne disporre. Il senso delle abitudini consiste proprio nel poterle mantenere senza doversi spostare. Prendersene cura costituisce un terzo passo sulla via della serenità. Chi invecchia ne dipende e vi è essenzialmente rimesso. Solo così non deve stare ogni momento a ristrutturare la propria vita”.

Sembrerebbe un invito alla noia, nemica dell’uomo contemporaneo. Invece Schmid valorizza le abitudini intendendole in senso classico, riferendosi all’habitus, ovvero a quella condotta che fa dell’uomo ciò che è, che gli permette di scolpire il suo modo di essere. Le abitudini sono scelte consolidate, dunque, che ci danno sicurezza, che ci tolgono dalla graticola delle infinite possibilità; sono decisioni già prese, su cui non dobbiamo tornare perdendo tempo. Non sono automatismi, ma confini di riconoscimento e di tranquillità, che semplificano la vita quotidiana, facendola scorrere secondo i binari che – da tempo – abbiamo scelto di seguire.


Il quarto passo per la serenità consiste nel “godimento consapevole dei piaceri e l’esperienza della felicità”:

“sapere che non potremo goderceli all’infinito, li valorizza. […] Essere sereni significa farsi irraggiare da questo piacere. La capacità di procurarsi un godimento consapevole rende l’età qualcosa da «accettare e amare», perché, come afferma Seneca nella sua XII lettera a Lucilio, «è una grande gioia saperne fare uso»”.

E anche il ricordo diviene così una fonte di piacere: la capacità di ricordare, ovvero di “riportare al cuore” ciò che ci ha reso felici è foriera di serenità, indicativa del potere che abbiamo nei nostri confronti quando riconosciamo ciò che ha dato pienezza alla nostra esistenza, che ci ha permesso di diventare chi siamo. In fondo, sottolinea il Filosofo, ricordare è sempre un narrare a se stessi le proprie gesta, componendo “le fibre sparse della vita in un unico filo rosso, che ha senso”. E, visto che siamo bisognosi di dare Significato alla nostra esistenza, quello del ricordo è un esercizio fondamentale.


Invecchiando facciamo i conti con i limiti anche corporei; la cosa di cui più avremmo bisogno per stare bene, viene a mancare inevitabilmente: la salute.

“Il quinto passo per raggiungere la serenità consiste nel potenziare la capacità di sopportazione, che permette di fronteggiare piccoli doloretti e grandi problemi”.

Schmid mette in luce come l’askesis è sempre allenamento sia mentale che fisico: esercitarsi al dolore, la possibilità di ridimensionarlo – accettando i limiti del corpo – passa necessariamente attraverso l’allenamento dello spirito, come insegnavano gli Stoici.

Ma tale dominio su di noi non è sufficiente a garantirci la serenità. Infatti, poiché siamo esseri-nel-mondo, oltre che di un buon rapporto con noi stessi, necessitiamo del rapporto con gli altri.

Ecco, dunque, che il sesto passo è proprio quello relativo alla “ricerca del contatto”, a detta di Schmid, che parte proprio dal bisogno di contatto fisico che emerge quando invecchiamo, riportandoci a quell’esigenza originaria del corpo dell’altro che ci caratterizza quando siamo bambini e il contatto materno è ciò che ci calma e che ci fa sentire amati:

“La gradevole prossimità di qualcun altro placa la tachicardia e riduce l’ipertensione. […] Toccarsi è spesso il termine medio che avvicina le persone. […] Il contatto è attenzione. Quando manca, l’anima e il corpo si inaridiscono e sfioriscono”.

Invecchiando, aumenta il bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi, che ci stia accanto quando siamo malati; dobbiamo accettare di delegare la cura del nostro corpo ad altri prima o poi, esattamente come eravamo accuditi da nostra madre quando siamo venuti al mondo. Il cerchio si compie e, anche sul letto di morte, ciò cui tendiamo è una mano che stringa la nostra, assieme simbolo di presenza e di imminente assenza.


Il contatto di cui parla l’Autore è ovviamente anche di natura “psichica” e “spirituale”, aspetti che possono essere compromessi da circostanze che prescindono da noi, come nel caso di malattie neurologiche che inficiano la possibilità di essere sereni soprattutto da parte dei cari che si prendono cura di una persona che ne è toccata. Eppure rimane il bisogno del tocco, del contatto visivo, della carezza…


Inerente alla sfera dell’essere in relazione, è anche il settimo passo previsto da Schmid, ovvero riguardante la cura dell’amore e dell’amicizia. Figli, nipoti, fratelli, amici, coniuge (se si ha la fortuna di averlo ancora accanto): sono tutti fiori da coltivare quando siamo al volgere della nostra esistenza. Dovremmo farlo sempre, è vero; tuttavia la frenesia delle nostre vite quando sono al culmine della loro fioritura ce lo impedisce, cosa cui invece possiamo porre rimedio quando il tempo che ci rimane è solo nostro, svincolato dalla responsabilità di professioni che hanno fagocitato la nostra libertà, per quanto ci abbiamo aiutato a realizzarci e a soddisfare i nostri bisogni primari. L’età ci permette di dedicare le nostre attenzioni al soddisfacimento dei nostri bisogni spirituali, finalmente, manifestando l’affetto che a lungo abbiamo magari dovuto rimandare, perché

“tutte le modalità di relazione hanno la loro importanza per creare una vita serena e piena di senso”,

scrive Schmid, invitando addirittura a valutare la possibilità di riconciliarsi o di chiarire anche con i nemici che, nonostante tutto, hanno pur avuto un ruolo nella creazione di ciò che siamo.


L’ottavo passo ci porta al cospetto di un concetto cui raramente diamo importanza, ossia quello di avvedutezza. Essa, per il pensatore tedesco, “consiste in una ricerca del senso e delle connessioni”. Poiché la vecchiaia ci permette uno sguardo retrospettivo sulla nostra esistenza, ecco che è un vero e proprio elogio di questa facoltà che emerge dalle parole di Schmid: l’avvedutezza ci consente di cogliere un senso laddove pareva non esserci, attraverso uno sforzo ermeneutico che compiamo rispetto a noi stessi:

“È arrivato il tempo della pienezza e della completezza, in cui è possibile dare uno sguardo alla vita nel suo complesso, interpretando, analizzando e valutando da dove sono giunto, qual è stata la strada che ho percorso e cosa ho ottenuto”.

Essere avveduti vuol dire sostituire l’ordine al caos che, sino a quel momento, sembrava aver regnato sovrano, ovviando alla casualità in cui molti ripongono la loro fede, e – con un certo approccio costruttivista – rintracciare un Senso sia nella nostra esistenza che nell’Esistenza in generale. Tale capacità di ordinare dona un’aura di tranquillità alla nostra vita, inevitabilmente foriera di serenità e coerente all’amor fati di cui si diceva sopra:

“Essere d’accordo con la vita, nelle sue basi anche se non in tutti i dettagli, è la disposizione d’animo che distingue fondamentalmente la tranquillità”.

Anche sul far della sera delle nostre vite, possiamo insomma acquisire maggior consapevolezza, proprio grazie all’individuazione a posteriori dei bivii di fronte ai quali ci siamo trovati, alle scelte che ne sono derivate e che hanno fatto di noi ciò che siamo. L’avvedutezza, a detta di Schmid, ci fa incarnare il saggio che i più vedono nell’anziano: uno sguardo sereno e consapevole, fatto di esperienze vissute, sulle cose del mondo e della vita.


Il nono passo è quello inerente la sfida più grande richiesta ad ogni singolo individuo: l’accettazione della propria finitezza. Essa consiste

“nella ricerca di un atteggiamento rispetto al limite della vita capace di avvicinare a esso. […] Non solo la vita, ma anche la morte è una questione di interpretazione. Nessuno sa quale sia la realtà. Probabilmente questo è il motivo della nostra inquietudine. È doverla interpretare a renderci inquieti. Possiamo vederla come un evento che dà senso alla vita, nella misura in cui segna il limite che le conferisce un valore. […] La limitatezza del tempo implica lo sforzo per rendere preziosa la vita, come se si trattasse di una gemma”.

Per Schmid, il limite non va spostato all’infinito, pena la perdita di senso e di profondità della nostra esistenza. Senza un termine, ogni nostro sforzo per realizzarci e carpire significato in ciò che viviamo, verrebbe vanificato. Io comprendo e concordo con tale prospettiva a livello razionale; tuttavia, non riesco a trovare requie in questo tipo di ragionamento a livello emotivo: la rabbia, dovuta alla perdita definitiva dell’unicità consapevole di ciascuno di noi, continua a destare sgomento e mancanza di accettazione. E tale tipo di rivolta di fronte al limite estremo rappresentato dalla Finitudine, pervade di inquietudine ogni aspetto dell’esistente, a mio parere, ostacolando la tensione alla Serenità qui tanto ben argomentata. Dovrei forse esercitarmi maggiormente nelle praemeditatio malorum, come sembra consigliare Schmid:

“Visto che la modernità offre molte possibilità di morire, è consigliabile pensarci. Proprio per questo motivo è importante il pensiero della morte che, già dai tempi di Pitagora, nel VI sec. a. C., rappresentava un esercizio filosofico volto a considerare continuamente la vita dal suo punto più esterno, a valutarla e magari anche a orientarla di nuovo”.

Tuttavia, e con personale sollievo per il ritrovarlo affine, Schmid poco dopo ammette di non trovare per nulla confortante questo tipo di esercizio:

“è impossibile sapere quando e come si verificherà la nostra fine, anche se la pianifichiamo. Ma posso farmene una rappresentazione. E perché? Per non avere paura di fronte alla morte? Finora non ci sono mai riuscito; la morte mi sembra sempre un fatto inaudito. E allora perché? Per prendere confidenza con un evento così spaesante e per ottenere una chiarezza maggiore su ciò che nella mia vita è importante a partire dalla morte stessa. La immagino come la fine del tempo e del mondo, sebbene soltanto per me”.

Ecco, è l’accettazione di tale visione che può, al limite, generare serenità. Una sfida, dal cui esito può derivare la coerenza necessaria per incarnare la Serenità qui elogiata.


Un modo per uscire in una certa maniera dalla tenzone, è quello che Schmid presenta come decimo e ultimo passo, quando afferma che giunte al limitare della vita

“le persone arrivino a concepire una dimensione metafisica. Non deve trattarsi assolutamente, come qualcuno crede, di un «al di là della natura» […]. Può anche essere una natura cosmica che si trova al di qua, che oltrepassa infinitamente ogni finitezza e la «trascende» nel senso letterale da attribuire a questa parola. La serenità consiste nel sentimento e nel pensiero del sentirsi protetti in un’infinità di cui non è importante il nome. Più rilevante è, invece, riconciliarsi con la propria finitezza nel momento in cui la nostra fine si sta avvicinando, forse confidando semplicemente, e in maniera, infantile, di appartenere a una totalità più ampia, di essere una parte del mondo che ci ha dato alla luce. Questo atteggiamento è implicato nel fatto stesso che viviamo. Non ce ne sono altri disponibili”.

Per l’Autore non conta tanto sapere come andranno le cose quando non ci saremo più o identificare precisamente che cosa sia la trascendenza in assoluto, quanto l’interpretazione autonoma che ne diamo.

“Un possibile decimo passo verso la serenità consiste nell’aprire la vita a una dimensione infinita, che si dischiude al di là della sua finitezza, quantomeno a livello della nostra immaginazione”.

Qualunque sia l’infinito verso cui tendiamo, sembra fondamentale ai fini di una visione serena dell’esistenza stessa, concepirla come aperta verso qualcosa che la trascenda, su cui sospendiamo il giudizio. Il filosofo tedesco, parla di “esperienze divine” di cui è costellata la vita, che ci danno una sorta di prova del fatto che non siamo solo destinati al Nulla. Come le situazioni limite di Jaspers ci mettono al cospetto della nostra Finitudine, tali esperienze divine ci aprono ad un orizzonte che va oltre la Finitudine stessa:

“il dimenticarsi di sé, il sentimento di una connessione totale, l’intensità. […] L’intensità dell’energia di cui facciamo esperienza in questi casi nutre la convinzione che l’essere e l’autenticità della vita si trovino oltre l’io e il tempo che la caratterizza”.

Che sia anima o energia poco conta; questo “qualcosa” permane, anche quando invecchiamo: esso permane “giovane”, pure alla fine dei nostri giorni, non deperisce, non decresce. E perché non può permanere anche quando il corpo verrà meno?

“Si può immaginare che l’energia di un essere umano torni nel mare dell’energia cosmica e che vada a riempire nuove forme di vita. In questo modo potremmo arrivare a pensare che i morti sopravvivano in altri esseri umani, in altri enti o nelle cose. Questo è l’eterno ritorno della vita. […] La vita, diversamente da quanto tendono ad ammettere gli esseri umani moderni, non finisce mai nel nulla, bensì in qualcosa di diverso d più grande”.

Questa prospettiva – definita transumanista da Schmid – apre alla questione del senso della vita:

“Qual è il senso di ogni essere? Se l’energia può essere compresa come l’essenza dell’essere e dell’esistenza, e se l’essenza dell’energia può essere fatta consistere, a sua volta, nella pienezza delle possibilità che vi sono implicite, ne risulta che il senso dell’essere non è altro che l’esecuzione di tutte le possibilità dell’essere stesso senza uno scopo ultimo, per tutta l’eternità, e cioè ad infinitum. […] Il senso della vita umana potrebbe pertanto essere la sperimentazione di tutte le possibilità dell’essere uomini. […] Il senso della singola vita umana potrebbe consistere nella partecipazione individuale al pieno svolgimento delle possibilità della vita. […] Io sono una delle possibilità che arricchiscono la vita, questo è il senso della mia esistenza. […] E così per tutti. Ogni nostra esperienza assume il suo significato nella prospettiva del tutto”.

Intesa così, anche la morte potrebbe essere letta serenamente, in quanto degna di approvazione. Tuttavia, rimane l’appello del singolo che si chiede: come può rendermi sereno sapere che, sì, non sparirò completamente perché mi trasformerò in qualcos’altro che permarrà e concorrerà alla Vita, quando la mia vita, unica e irripetibile, svanirà?

Tale quesito rimane, comunque, insoluto.


[1] W. Schmid, Serenità. L’arte di saper invecchiare. Fazi editore, 2015.

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“Nessuno di noi abita il mondo, ma tutti abitiamo esclusivamente la nostra visione del mondo. E non è reperibile un senso della nostra esistenza se prima non perveniamo a una chiarificazione della nostra visione del mondo, responsabile del nostro modo di pensare e di agire, di gioire e di soffrire. Chi si rivolge al counseling filosofico non è malato, è solo alla ricerca di un senso”.

– Umberto Galimberti –

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