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L’incomunicabile II

  • Immagine del redattore: Filosofia di Bene
    Filosofia di Bene
  • 26 set 2020
  • Tempo di lettura: 4 min

“Morte o vita; malattia, salute; spirito e natura. Sono forse contraddizioni? Domando: sono forse problemi? No, non sono problemi, non lo è nemmeno l’inchiesta sulla loro mobilità. La sconsideratezza della morte è nella vita, senza di essa la vita non sarebbe vita, e nel mezzo sta l’homo Dei – nel mezzo tra leggerezza e ragione – come nel mezzo tra mistica comunità e vana individualità è il suo stato. […] L’uomo è il signore delle antitesi, esse devono a lui la loro esistenza, perciò è più nobile di esse. Più nobile di esse. Più nobile della morte, troppo nobile per essa, … ecco la libertà della sua testa. Più nobile della vita, troppo nobile per essa, …ecco la bontà del suo cuore. […] Non voglio concedere alla morte il dominio sui miei pensieri! […] La morte è una grande potenza. Alla sua presenza ci si leva il cappello e si cammina oscillando in punta di piedi. […] Amore e morte: ecco una rima mal riuscita, insulsa, sbagliata. L’amore è opposto alla morte, esso solo, non la ragione, è più forte di essa. Esso solo, non la ragione, suggerisce pensieri di bontà. Per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri”. (Thomas Mann, La montagna incantata)

Nel post del 15 agosto scorso, L’incomunicabile, si parlava della difficoltà del protagonista del film È solo la fine del mondo nel comunicare la notizia della propria malattia terminale ai familiari, incapaci di ascoltare a causa delle frizioni relazionali che caratterizzano i loro rapporti.


Ma se invece ci trovassimo all’interno di una famiglia in cui il dialogo è sempre stato autentico, in cui – nel bene e nel male – ci si è sempre detti tutto? Sarebbe più semplice comunicare l’imminente fine a uno dei pilastri di quella famiglia? Se la persona colpita dal “male incurabile” ha sempre dichiarato di voler sapere, per il congiunto che viene – improvvisamente – investito dalla notizia, sarebbe più facile informare il diretto interessato? La risposta è no. La morte mette sempre in scacco.


Il caos si abbatte comunque anche su colui che, da sempre, ha riposto nel principio di auto-determinazione il suo credo. Come fai a togliere la speranza a colui o a colei che ami in maniera tanto incondizionata pronunciando le parole fatidiche “stai per morire”? Allora inizi ad ascoltare altre persone care, amici e parenti, e tutti dicono la loro: dire, non dire… Ci son ragioni a favore dell’una e dell’altra opinione. E, per chi è il depositario della condanna a morte, il marasma è totalizzante. Non solo devi gestire la notizia, confrontartici in una lotta tra l’accettazione e la negazione, ma devi anche farti carico della responsabilità di informare o di tacere. Gli scenari possibili sono diversi: si può scegliere di tenere accesa la Speranza, colei che – una volta fuoriusciti tutti i mali dal vaso di Pandora – rimane nonostante tutto; oppure puoi decidere di informare e di cercare di aiutare la persona ad elaborare questa informazione; o, ancora, puoi optare per una reservatio mentis, l’arte della dissimulazione, del “dire e non dire” in cui era maestro don Abbondio, che insegna come sia possibile pronunciare “mezze verità” per salvare (un minimo) la propria coscienza e, assieme, per non consegnare completamente la verità.


In questo caso, così come nel primo in cui facciamo valere l’argomento della speranza, si tratta comunque di menzogna. Chi propende per queste vie, inevitabilmente incappa nel teatrino, nelle favole da raccontare alla persona amata per proteggerla dalla realtà della situazione indicibile. Ma è giusto proteggere? Come possiamo arrogarci il diritto di tenere all’oscuro? Ci stiamo raccontando una favola a nostra volta?


Penso che ognuno possa trovare la propria risposta riflettendo su più fronti, ma – in primis – cercando di capire cosa voglia dire, per lui, amare.

Come dice Thomas Mann sopra, l’Amore è l’opposto della Morte. Quindi, se amiamo, dobbiamo lasciare che scorra questo sentimento che ci lega alla vita, che rimane alla fine del mondo dell’altro, che oltrepassa addirittura la Speranza.

"La morte dell’altro, soprattutto se lo si ama, non è l’annuncio di un’assenza, di una sparizione, la fine di questa o quella vita, cioè della possibilità di un mondo (sempre unico) di apparire a un vivo. La morte dichiara ogni volta la fine del mondo nella sua totalità, la fine di tutto il mondo possibile, e ogni volta la fine del mondo come totalità unica e quindi insostituibile e quindi infinita. […] La fine del mondo per se stesso, del solo mondo esistente, ogni volta. Singolarmente. Irreversibilmente. Per l’altro, e stranamente anche per chi per il momento sopravvive e ne fa l’impossibile esperienza. Ecco che cosa può significare il «mondo». E questo significato glielo conferisce solo ciò che si può chiamare la “morte”. (J. Derrida)

L’universo finirà con lui o con lei; noi ci sentiremo orfani e abbandonati, ma – come mi ha ricordato un caro amico – il suo Amore rimarrà per noi e per coloro che rimangono. E se credi nell’Amore, devi aver fiducia che esso ti darà la risposta e che il “mondo” di quel singolo rimarrà custodito e vivificato da tale potente sentimento.

Accompagnare una persona amata sino al limitare del suo percorso, prendersi cura di lei, ascoltarla e accudirla come magari lei ha fatto con noi da quando siamo al mondo … Questo, forse, ci consentirà di trovare le forze per farci carico dell’incomunicabile. Viverlo e, nel mentre, dipanare la matassa non da soli ma con quel singolo che sta per compiere l’ultimo passo.

L’Amore ci farà da guida. E così non concederemo alla Morte il dominio dei nostri pensieri.

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“Nessuno di noi abita il mondo, ma tutti abitiamo esclusivamente la nostra visione del mondo. E non è reperibile un senso della nostra esistenza se prima non perveniamo a una chiarificazione della nostra visione del mondo, responsabile del nostro modo di pensare e di agire, di gioire e di soffrire. Chi si rivolge al counseling filosofico non è malato, è solo alla ricerca di un senso”.

– Umberto Galimberti –

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