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Le parole per "dirla"

  • Immagine del redattore: Filosofia di Bene
    Filosofia di Bene
  • 21 giu 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 31 ago 2020



“Avevo molte storie da raccontare, molti aneddoti. Ma della storia che abitava dentro di me, la Cosa, questa colonna del mio essere, ermeticamente chiusa, piena di buio in movimento, come facevo a parlarne? Era una colonna densa, spessa, percorsa talvolta da spasmi, da affanni, e da movimenti lenti come quelli dell’acqua nei sottofondi marini. I miei occhi non erano più finestre. Benché fossero aperti sapevo che li avevo chiusi, che erano solo due fette di globi oculari”

Non tutti hanno le parole per dirlo. Invece, Marie Cardinal, in questo romanzo pubblicato nel 2001, le trova.


Ma le parole per dire cosa?

Le parole per esprimere “la Cosa”.

Spesso siamo attanagliati dalla “cosa”, ma non riusciamo a definirla, e tale incapacità rende ancora più opaca la nostra percezione esistenziale.

La Cosa è fatta, a volte, di sensazioni epidermiche, di nausea, vertigine, sgomento. È difficile da fissare e connotare perché ci pervade, ci avviluppa, impastando i nostri giorni come fosse colla.

“La Cosa dentro di lei era costituita da un mostruoso formicolio d’immagini, di suoni, di odori, proiettati in ogni parte da una pulsione distruttiva; rendeva incoerente ogni ragionamento, assurda ogni spiegazione, inutile ogni tentativo di fare ordine; all'esterno si rivelava con un tremito violento e un sudore nauseabondo”

C’è chi prova a convivere con questo indefinito stato di inquietudine e agitazione, ma – nonostante gli sforzi –, ineluttabilmente la Cosa ritorna:

“La Cosa era venuta, era tornata, e ora non mi lasciava più. Mi assorbiva al punto che non riuscivo ad occuparmi d’altro. In un primo tempo avevo sperato di poter vivere con la Cosa, come altri vivono con una gamba sola, una malattia allo stomaco o ai reni. I farmaci infatti relegavano la Cosa in un angolo, dove non si muoveva. […]. Poi, un bel giorno, mi sono svegliata prigioniera della Cosa”.

La Cosa infatti, quando insorge, non può essere ottusa, stordita, messa a tacere… Anzi, deve essere detta. Dobbiamo accoglierla e darle un nome perché, definendola, possiamo definire noi stessi e trovare una strada verso un’esistenza autentica, in cui anche la Cosa abbia posto. Essa rischia di invalidare la nostra vita, di farci arrendere, divenendo passivi, perché è tale lo svuotamento di Senso che comporta, da spingerci a gettare le armi:

“La Cosa aveva vinto. […] La Cosa aveva cacciato via i miei figli, le strade piene di gente, le luci dei negozi, la spiaggia a mezzogiorno con le piccole onde dell’estate […]. Oltretutto la morte mi faceva paura e, allo stesso tempo, mi sembrava l’unica soluzione per eliminare la Cosa”
“Mi accorsi anche che la Cosa non era più come prima, inquieta, affannosa, rapida; era diventata densa, vischiosa, collosa. Non era più la paura che mi abitava, ma piuttosto la disperazione, la tristezza, il disgusto. […] Eppoi non ce la facevo più, volevo solo che mi liberassero dalla paura, dalla Cosa, a qualunque prezzo”.

Perché il rischio è questo: che, per liberarsi della Cosa, si inizi a desiderare la Cosa stessa.


Ma la Cosa è anche un’occasione di trascendenza, di scelta cui conformare la nostra esistenza, dando Senso alla sofferenza che, inevitabilmente, accompagna i nostri giorni. Non è una patologia con cui convivere, bensì può diventare la fonte cui abbeverarsi per ritornare padroni di noi stessi, avere una percezione di congruenza tra quello che pensiamo e quello che agiamo… è un’occasione di risveglio e di consapevolezza. Il primo passo è avere il coraggio di nominarla:

“«Ho paura».
«Paura di cosa?»
Per la verità non sapevo nemmeno io di che cosa avevo paura. Avevo paura della morte, ma anche della vita, perché essa genera la morte”.

Ecco che cosa è la Cosa. La paura della Morte. E quante parole sgorgano quando la si nomina finalmente:

“Ero a letto, oppressa, con l’affanno, coperta di sudore. Se aprivo gli occhi avevo l’impressione di assistere alla decomposizione della realtà, degli oggetti, dell’aria. Se li chiudevo vivevo la mia decomposizione, quella delle mie cellule, della mia carne. Mi faceva paura. Niente e nessuno, neppure per un solo attimo, era in grado di arrestare questa degradazione di ogni cosa. Annaspavo, non riuscivo più a respirare, dappertutto c’erano microbi, dappertutto vermi, dappertutto acidi corrosivi, dappertutto pustole piene di pus. Perché questa vita si nutre di se stessa? Perché queste gestazioni sazie di agonia? Perché il mio corpo invecchia? Perché fabbrica liquidi e materie puzzolenti? Perché questo sudore, queste feci, questa orina? Perché il letame? Perché questa lotta tra tutto ciò che vive, finché chi vince si rimpinza del cadavere del vinto? Perché questa ronda ineluttabile, maestosa, dei fagociti? Chi dirige questo mostro perfetto? Quale instancabile motore muove la strage? Chi agita gli atomi con tanta forza? Chi sorveglia ogni sasso, ogni filo d’erba, ogni bolla di sapone, ogni neonato, con un’attenzione costante fino a condurli alla putrefazione? Cosa c’è di certo oltre alla morte? dove ci si può riposare se non nella morte che è solo decomposizione? A chi appartiene la morte? cos'è questa Cosa enorme e molle, indifferente alla bellezza, alla gioia, alla pace, all'amore, che si stende su di me e mi soffoca? […]. Dove la trovano gli altri la forza di sopportare la Cosa? Come fanno a vivere insieme a essa? Sono pazzi! Sono tutti pazzi! Non posso nascondermi, non posso fare niente, sono in balia della Cosa che si avvicina lentamente, inesorabilmente, che mi vuole per nutrirsi.
Una corrente di vita putrefatta mi stava portando via, mio malgrado, verso la morte invincibile e obbligatoria che era l’orrore stesso. Tutto questo m’ispirava una paura agghiacciante, insopportabile”.

Mano mano che si procede nella lettura, Marie Cardinal riempie di dettagli, di parole e significati quella Cosa sino a qualche riga prima indefinibile … E questo va in parallelo con la chiarificazione che fa di se stessa rispetto alla Cosa, come può fare ciascuno di noi qualora dovesse percepire quel “vuoto pieno e compatto”.


L’Autrice, ad esempio, rintraccia nella percezione di appartenenza al Tutto la chiave per ricollocare la Cosa in una cornice di Senso per lei:

“Che sia a causa di quei momenti che nel corso della mia vita sino a oggi, le mie riflessioni mi hanno sempre riportata alla mia condizione: un frammento dell’universo? Che sia a causa dell’armonia di quelle notti antiche che accetto la mia esistenza solo quando sento che è cosmica? Che sia a causa dell’intesa che esisteva tra me e lei che mi sento felice soltanto quando ho l’impressione di partecipare a un tutto?”

Come facevano gli antichi filosofi delle scuole ellenistiche, che si esercitavano a contemplare l’infinitamente grande (il cosmo) per risignificare e ridimensionare l’infinitamente piccolo che l’uomo è.

Ognuno di noi ha la possibilità di trovare il suo Senso rispetto alla consapevolezza della Cosa.

Ognuno di noi può (e deve) trovare le parole per dirla. Perché reperire le parole, è un primo passo per ritrovare il Senso. Ciascuno il proprio.

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“Nessuno di noi abita il mondo, ma tutti abitiamo esclusivamente la nostra visione del mondo. E non è reperibile un senso della nostra esistenza se prima non perveniamo a una chiarificazione della nostra visione del mondo, responsabile del nostro modo di pensare e di agire, di gioire e di soffrire. Chi si rivolge al counseling filosofico non è malato, è solo alla ricerca di un senso”.

– Umberto Galimberti –

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