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Riconoscimento, Amore e Amicizia.

  • Immagine del redattore: Filosofia di Bene
    Filosofia di Bene
  • 7 giu 2020
  • Tempo di lettura: 5 min


“L’autocoscienza è in sé e per sé solo quando e in quanto è in sé e per sé per un’altra autocoscienza, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto”. (G.F.G. Hegel, Fenomenologia dello spirito)

La prima forma di riconoscimento, totalmente incondizionato, è quella che incontriamo da piccoli nello sguardo di nostra madre: lei ci vede, ci accetta in maniera completa e ci ama per quel che siamo. Avremo nostalgia tutta la vita di quegli occhi in cui ci sentiamo sicuri, riconosciuti e amati.

“Il volto è un’altra figura essenziale della madre. È solo grazie al volto della madre che il piccolo dell’uomo può specchiarsi, può vedere il proprio volto, può riconoscere la propria identità. Il volto della madre funziona come un primo specchio capace di svelare la natura irreducibilmente dialettica del processo di umanizzazione della vita. Solo attraverso il volto dell’Altro posso incontrare il mio volto, solo grazie alla presenza dell’Altro posso costituire la mia vita. È il grande insegnamento della dialettica servo-padrone di Hegel, che Lacan riprende a suo modo illustrando come il desiderio dell’uomo sia sempre necessariamente desiderio dell’Altro, desiderio di essere riconosciuto da un altro desiderio, desiderio di desiderio, desiderio del desiderio dell’Altro. Il volto della madre incarna il tempo primario del riconoscimento: esplorando questo volto, il bambino fa esperienza del proprio”. (M. Recalcati, Le mani della madre)

Se mi guardo allo specchio, mi riconosco? Che cosa vuol dire riconoscersi e sentirsi riconosciuti?

Diverse problematiche esistenziali sono legate al Riconoscimento, tema sviscerato dai filosofi sotto molte declinazioni, sempre attestanti l’importanza costitutiva di questo sentimento per ciascuno di noi.

Abbiamo bisogno di riconoscere noi stessi e di essere riconosciuti dagli altri.

Desideriamo l’Altro perché ci può confermare chi siamo o aiutarci a capirlo. L’Altro è uno specchio.

Molte sofferenze esistenziali derivano, dunque, dalla percezione di un mancato riconoscimento, sempre in questo duplice legame, quello che intratteniamo con noi stessi e quello che viviamo con le altre persone. Spesso non ci riconosciamo, infatti; magari perché abbiamo tradito dei valori che reputavamo fondanti la nostra visione del mondo; oppure sono gli altri a farci sentire non riconosciuti, poiché ci rimandano una disconferma rispetto alle nostre intenzioni, ci fanno avvertire fraintesi, travisati. Nei contesti lavorativi, diverse sono le occasioni in cui ci sentiamo misconosciuti o disconosciuti.

La congruenza tra percezione interna e risposta del mondo (costituito dalle persone con cui entriamo in relazione), è alla base della nostra identità. Se non vi è equilibrio tra riconoscimento interiore ed esteriore, l’identità vacilla, con conseguente malessere. Luigi Pareyson, esistenzialista italiano, definiva la Persona come «coincidenza di autorelazione e di eterorelazione».

Abbiamo bisogno degli altri per comprenderci. Ma se siamo tanto diversi come facciamo a intenderci? Come è possibile comunicare? Qui sta la sfida. Senza neppure renderci conto della difficoltà, noi proviamo ogni giorno a comunicare con l’altro, dando per scontato che ci si capisca, che si intendano le stesse cose, che ci sia coincidenza tra me e l’altro. In realtà non è così. Un elemento forse frustrante, ma allo stesso tempo avvincente e foriero di fascino, è il rendersi conto che alla fine non comprenderemo mai sino in fondo quanto l’altro ci vuole comunicare: l’inesauribilità della persona e dei significati di cui è portatrice è uno dei misteri e, allo stesso tempo, dei problemi della comunicazione e della relazione. Per quanto si pensi di conoscere una persona, questa ci sfuggirà sempre nel profondo, non potremo mai possederla né etichettarla come “compresa” una volta per tutte. Arthur Schopenhauer (1788-1861) non a caso parlava del “mondo come volontà e rappresentazione” (titolo della sua opera più famosa, del 1819): il pensiero, la visione del mondo, il modo in cui io mi rappresento il mondo plasmano la vita:

“Il mondo è una mia rappresentazione […] Niente è più certo che nessuno può mai uscire da sé per identificarsi immediatamente con le cose diverse da lui; tutto ciò di cui egli ha coscienza sicura, quindi immediata, si trova dentro la sua coscienza”.

Lottiamo, insomma, per essere riconosciuti e per guardarci allo specchio riconoscendoci.

Ci sono delle eccezioni, però, durante l’esistenza di ciascuno, in cui la lotta subisce una tregua. Non sarà come incontrare il volto materno, ma quello che destano tali occasioni ci fanno riposare, infondendoci autostima e appagamento, dandoci forse l’illusione di poter uscire da noi raggiungendo l’alterità: l’Amore e l’Amicizia.

L’Amore ci rende inermi e ci dona una “seconda nascita”: nasciamo per l’Altro e rinasciamo a noi stessi, come esprime bene Roberta De Monticelli ne L’ordine del cuore:

“Ogni amore, in qualche modo, ha un principio. Fosse pure la comparsa di questo nuovo nato – il caso in cui qualcuno comincia letteralmente a esistere. Ma è vero di ogni amore incipiente che qualcuno cominci veramente a esistere, agli occhi di qualcun altro, al momento di un incontro. […] improvvisa percezione dell’unicità e preziosità di quell’esistenza data fino ad allora per scontata. […] Questo dato, che nel principio di un amore qualcuno cominci a esistere agli occhi di qualcun altro, non stupisce se si pensa che l’oggetto formale dell’amore personale – e di questo solo fra tutti i sentimenti – è precisamente l’identità altrui. L’amore infatti è una risposta possibile a un vero incontro di individualità essenziali. Esso è, nel suo principio, lo spontaneo attivarsi di uno strato di sensibilità a valori positivi che era rimasto «dormiente» o inattivato: perciò la caratteristica meraviglia con cui si annuncia il suo sorgere, e anche il senso di un allargarsi del respiro vitale e dell’orizzonte mentale, perciò anche la caratteristica sensazione di «vita nuova» che lo accompagna, e che viene a volte percepita come un aver «cominciato a essere vivi» solo «ora», non prima … Ed è, nella sua essenza, il riconoscimento di una individualità essenziale – curiosamente, il solo riconoscimento pieno e assoluto di esistenza e unicità di un altro che ci sia dato esercitare […]. Riconoscimento che è veramente tale, capace cioè di perspicacia o veggenza – ed è questo l’aspetto misterioso del fenomeno – in quanto è il più possibile conforme a se stessa o alla sua essenza, di quel determinato altro. Incondizionato: non si ama qualcuno perché è una persona di valore, ma lo si ama perché è quella persona e misteriosamente si vede più degli altri quanto al valore che in lei può vivere.”

E poi vi è l’Amicizia, l’altra relazione in cui – se autenticamente fondata sulla reciprocità – ci sentiamo riconosciuti, accettati totalmente e facilitati nel diventare ciò che siamo:

“Senza reciprocità – o, per usare un concetto caro a Hegel, senza riconoscimento – l’alterità non sarebbe quella di un altro da sé, ma l’espressione di una distanza indiscernibile dall’assenza. Altro mio simile: questa è l’aspirazione dell’etica nei confronti del rapporto tra la stima di sé e la sollecitudine. È nell’amicizia che similitudine e riconoscimento più si avvicinano all’eguaglianza tra due insostituibili […] In tal senso, concepisco la relazione del sé con il proprio altro come la ricerca di una eguaglianza morale attraverso le diverse vie del riconoscimento” (P. Ricoeur, La Persona).

Come diceva Hegel, nell’Amore e nell’Amicizia si sperimenta il Riconoscimento come “intuizione di se stessi entro l’altro”. L’inesauribilità di cui siamo portatori rimane, ma la percezione che ne deriva ci conforta, facendoci sentire vicini all’Altro, che – guardandoci – ci vede.

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“Nessuno di noi abita il mondo, ma tutti abitiamo esclusivamente la nostra visione del mondo. E non è reperibile un senso della nostra esistenza se prima non perveniamo a una chiarificazione della nostra visione del mondo, responsabile del nostro modo di pensare e di agire, di gioire e di soffrire. Chi si rivolge al counseling filosofico non è malato, è solo alla ricerca di un senso”.

– Umberto Galimberti –

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